A chi assomigliamo su Google?
Un progetto artistico esplora l’interazione creativa tra l’identità visiva e il motore di ricerca Google
Quando carichiamo un’immagine all’interno di Google Images, lo facciamo per risalire ai contesti in cui è stata utilizzata e individuarne origine e autori. Ma come risponde Google se carichiamo una fotografia inedita?
Il responso non è difficile da prevedere, ed è la dimostrazione che la macchina è costruita a nostra immagine e somiglianza: Google si baserà sull’immaginario collettivo, restituendoci le informazioni che noi stessi abbiamo caricato al suo interno.
Non trovando l’immagine in contesti noti, infatti, il motore di ricerca ne restituirà altre che contengono forme simili, gli stessi colori o uno stile affine. Il risultato sarà il rimando ad un universo identitario, caratterizzato da stereotipi a cui volontariamente o inconsciamente ci conformiamo e da cui la macchina attinge.
Qualche giorno fa Google è stato anche accusato di razzismo. Un adolescente afroamericano ha provato a digitare la ricerca “tre ragazzi neri”, ottenendo come risultato una serie di immagini segnaletiche di ragazzi di colore (contrariamente alla chiave “tre ragazzi bianchi” che restituisce invece immagini di adolescenti felici e innocenti). Ma il colosso di Mountain View non c’entra e si è difeso così: << il razzismo è solo lo specchio della società, si trova ovunque, in tutti i media e in tutti i motori di ricerca >>.
Ci affidiamo alla macchina come ad un oracolo, ci arrabbiamo quando non risponde alle nostre query come vorremmo, ma troppo spesso dimentichiamo che sono gli umani ad inserire i Tag. Il sistema rivela cliché e visioni dell’inconscio collettivo selezionandoli da un magazzino rifornito quotidianamente per nostra mano, risultati che portano in superficie le tracce digitali di quello che siamo.
Fabrizio Intonti, fotografo romano di formazione filosofica affezionato alle contaminazioni tra tecniche e nuovi linguaggi, ha realizzato un progetto artistico che nasce dall’interazione creativa tra un’immagine inedita scattata da lui, e decine di altre immagini selezionate da Google in base alla somiglianza visiva con la prima.
Netaphors è il nome del progetto, che raccoglie in una serie di collage l’elaborazione dei risultati delle associazioni codificate dalla macchina. Il titolo è basato sul neologismo Netafora, coniato dallo stesso Intonti per descrivere la relazione che si instaura attraverso la rete tra due cose diverse, ma simili per almeno un aspetto. Proprio i lapsus visivi generati dalla macchina -talvolta associazioni surreali- la fanno assomigliare all’uomo, poiché è l’imprevisto a dare inizio a un processo creativo, come ci racconta.
VM: Netafora è il neologismo che hai creato per esprimere la relazione creativa due cose diverse, una fotografia e il motore di ricerca Google. Netaphors è l’anti-fotografia che tenta di rispondere alla nascita del nuovo linguaggio universale creato dalla macchina?
FI: Diciamo che è un tentativo di interagire creativamente con un “automatismo” che mette in connessione miliardi di immagini presenti il tutto il web. Viviamo nell’era della connettività e questo riguarda non solo le persone ma anche le rappresentazioni che facciamo delle cose e di noi stessi. Basti pensare a quanto oggi tutti tendano a dare di sé un’immagine multiforme e varia. Una volta l’immagine primaria della nostra identità era proprio quella della “carta d’identità”, un supporto analogico quindi, un’unica foto che ci “rappresentava” in una certa forma per decenni. Oggi invece è l’insieme di tutti i modi, variabili e molteplici, in cui ci rappresentiamo e riproduciamo “digitalmente” nei social o sul web.VM: Hai affermato <<Google è diventato realtà, mentre la realtà è diventata astrazione>>, che intendi?
FI:Può sembrare che questo progetto, legato al mondo che ci appare attraverso un monitor o un display, abbia poco a che fare con la fotografia , che questa sia un’altra cosa più vicina alla realtà concreta, quella che vediamo e tocchiamo. Ma non sono così sicuro che questa distinzione sia poi così valida. Oggi la prima cosa che facciamo dopo avere aperto gli occhi al risveglio è accendere uno smartphone, viviamo in perenne connessione con gli altri, passiamo ore al computer usando Google come una mente a cui fare domande di qualsiasi tipo (ad esempio, se conosciamo qualcuno la prima cosa che facciamo è cercare il suo nome su Google). E questa non sarebbe realtà?
Che ci piaccia o no, oggi guardare la “realtà” e fare finta che tutto questo non esista è la vera astrazione, andare a catturare l’esotico, lo straordinario, magari con uno strumento digitale, mi sembra molto più artificiale che reale da questo punto di vista.
VM: Se la macchina impara la creatività, può minacciare il processo creativo degli uomini o addirittura, fargli concorrenza?
FI: Non credo, per quel che ne so. Innanzitutto nel caso delle mie “Netaphors” l’automatismo non fa tutto il lavoro (sarebbe troppo facile!), i collage fotografici sono il frutto di un accurato processo di selezione e ulteriore elaborazione da parte mia di quello che Google mi propone. Ma soprattutto, le somiglianze trovate dal motore di ricerca sono più efficaci quando sbaglia, quando cioè non riconosce bene l’immagine di partenza e la associa in modo surreale ad altre immagini. É pur sempre l’autore a cogliere questo aspetto metaforico e creativo. Ma indubbiamente si accosta a certi meccanismi classici creativi fondati sulla similitudine. Ad esempio Google potrebbe accostare un peperone e un corpo umano (come ha fatto Edward Weston) oppure una viola e una schiena femminile (come ha fatto Man Ray)VM: Come hanno reagito i protagonisti delle tue immagini alla visione della associazioni della macchina rispetto alle loro immagini?
FI:Mi sembra che la maggior parte di loro si sia decisamente divertita.
Il progetto di Fabrizio Intonti ha vinto 3 Honorable Mentions al Prix de la Photographie de Paris ed è ora visibile a Roma con la mostra Netaphors a Palazzo Velli fino al 19 Giugno, a cura di Auronda Scalera.
tutte le immagini sono di proprietà di Fabrizio Intonti
Virginia Marchione