Ayumu Arena
La Ayumu Arena per un istante è come se smettesse di respirare.
I quindicimila spettatori coordinano i loro sistemi nervosi e all’unisono, per quell’istante, sospendono le urla lasciando che la volta in vetrocemento dello stadio dissolva l’eco delle loro voci.
Giù, nell’ovale del campo, i sei megaschermi ad alta definizione disposti circolarmente e orientati verso le gradinate rimandano le immagini dei sei giocatori ancora seduti sulle loro poltrone ergonomiche con i controller da gioco in mano.
In realtà non in tutte le poltrone i giocatori siedono in questo fine partita di fine campionato della Electronic Sport Fight Legue che sancisce chi di loro sia divenuto il nuovo campione. Nella postazione due, Martin Ficher è in piedi, controller in mano e bava alla bocca, stordito dallo stesso gesto che ha inconsultamente compiuto. Accanto a lui, nella postazione uno, l’ologramma di Devin Oller vibra nei suoi contorni sbiaditi dalla poltrona di gioco.
Martin Ficher si asciuga meccanicamente la bocca dai resti del fiotto di saliva del proprio sputo che ha bagnato la poltrona di Oller dopo aver attraversato il viso evanescente del suo ologramma, mentre la Ayumu Arena torna a respirare in un vocio di commenti che diventano insulti, grida, risate. Naturalmente l’ologramma di Oller non ha fatto una piega al gesto di Ficher. Se ne sta lì a vibrare in un sorriso alieno che ne conferma l’inconsistente presenza.
Oller, questa specie di funzione algoritmica evanescente e imperturbabile, è indiscutibilmente il nuovo campione e Ficher evidentemente non ci sta. Non ci sta e le massicce dosi di Adderal che gli lubrificano le sinapsi, rendendolo plausibilmente il giocatore più dopato di sempre, hanno fatto la differenza nella sua risposta antisportiva, alzandogli i livelli di aggressività ma rendendogli, poi, alla fine, difficile recuperare la saliva necessaria a mettere insieme il corposo fiotto di saliva che adesso cola lungo lo schienale della poltrona di Oller.
Ficher non ci sta e non sembra poi pentito di averlo manifestato con tanta chiarezza. Guarda intorno a sé gli spettatori con fare di sfida e urla qualcosa dal microfono che si protende dall’auricolare verso la guancia e che la regia non ha il tempo di mettere in muto, o non ha proprio intenzione di farlo. Ficher, indicandosi il petto con l’indice, urla : – sono io qui quello che ha vinto, lui non c’è – . E indica l’ologramma di Oller nel suo sorriso ebefrenico. – Lui è morto! – E questa non sarebbe poi una notizia, ma innesca nella platea un vocio fatto di piccole grida e parlottio e sottofondo di ooh.., quel tipico vocio che dice chiaro che Ficher ha sollevato un problema riguardo a qualcosa su cui evidentemente non si è fatta molta chiarezza. Un problema che adesso si fa in due perché se da un lato lo sputo di Ficher dichiara che i giocatori morti non dovrebbero continuare a giocare attraverso l’algoritmo che elabora lo storico delle loro partite in vitam trasformandolo in azioni ex novo post mortem, dall’altro lato quello sputo è un oltraggio al morto, che seppur giocando, sempre morto rimane.
Ficher chiude la questione strappandosi via l’auricolare e sceso dalla pedana del ring a sei megaschermi si avvia verso gli spogliatoi lasciando che i giudici se la vedano con gli spettatori che intanto sugli spalti non sembra abbiano preso i contenuti espressi da Ficher troppo sottogamba. Il fatto che la questione sia spinosa traspare dal secondo ordine degli spalti dove Orin Lubiati sferra secco un destro sulla faccia di un tizio che comincia a spruzzare sangue dal naso attorno. Orin ha le sue buone ragioni a quanto pare. Lo si deduce dal piglio serio che assume dopo aver sferrato il colpo e dal lieve cenno del capo in segno di assenso, che compie a seguire mentre lo spruzzasangue in cui si è trasformato il suo interlocutore spande attorno il suo liquido plasmatico che mette in fuga i vicini, facendo in modo che qualcuno per sottrarsi a quella doccia di possibili infezioni cominci a camminare su altri spettatori. L’azione dello scavalcamento con schiacciamento innesca un effetto ola, che si espande a macchia d’olio dalla postazione di Orin investendo via via gruppi di spettatori sempre più numerosi.
Ecco, se ogni tragedia ha il suo epicentro questo è possibile sia stato l’epicentro che nel freddo novembre di una Tokio del 2023 ha prodotto alla Ayumu Arena 278 morti e il cui esito ha fatto in modo che l’evento venisse ad oggi, appunto, ricordato come la tragedia dell’Ayumu Arena, dove, detto per inciso, “Ayumu” significa “colei che cammina nei sogni”.
Ma nonostante il suo terribile bilancio la tragedia dell’Ayumu Arena segna un evento di maggiore portata chiamando in campo un dibattito senza precedenti intorno agli algoritmi che rendono possibile a giocatori morti di continuare a giocare, a genitori di bambini morti di continuare ad acquistare su Amazon giocattoli che i loro figli continuano a scegliere anche dopo le premature dipartite sempre secondo gli algoritmi che hanno monitorato la loro breve vita e le loro piccole scelte, regalando, questi algoritmi, la sensazione ai loro disperati genitori di avere ancora con loro i loro piccoli, anche se sotto forma quasi esclusiva di consumatori.
Ma forse, ancor di più, il dibattito si accese intorno ai profili dei social network dove i morti continuano ormai da tempo a pubblicare ogni genere di fotografie e frasi e opinioni.
Opinioni soprattutto, opinioni in modo massiccio, talmente massiccio da produrre flussi d’opinione capaci di influire su questioni importanti, questioni d’importanza capitale a volte, che portarono nel tempo la situazione ad un livello tale da rendere possibile poter pensare che i proprietari di quelle esistenze virtuali, ovvero quei morti che continuavano a vivere attraverso la loro presenza digitale realizzata incrociando i dati provenienti dai loro profili social e dalle loro scelte storiche negli e-shop, fino a poter pensare che quelle esistenze virtuali potessero accedere al diritto di voto.
E fu così che, alla fine, dopo battaglie per i diritti che fanno diventare quelle delle donne, degli omosessuali e dei neri d’america, pallidi esempi di lotte per i diritti civili, beh, finalmente, ora, oggi, io, qui, posso non solo dialogare con voi raccontandovi, riassumendo, questa storia di civiltà e democrazia, ma posso vivere da normale cittadino, influendo sulle scelte politiche e vivendo a pieno, seppur relegato in una Claud di tutto rispetto, senza discriminazioni di sorta e quando dico senza discriminazioni non intendo solo di genere, o di razza, o di condizione sociale, ma di stato, di stato vitale.
Luigi Saravo