Deserto
Oggi che il vento soffia da nord il cielo al tramonto ospita un sole opaco, offuscato dai fumi dalle raffinerie. La luce violacea si irradia dall’orizzonte sulla distesa di terra riarsa attraversata da infinite crepe come fosse la pelle di un gigantesco elefante.
A ridosso dei check point un enorme intasamento di mezzi di ogni tipo aspetta incolonnato sotto le alte mura di protezione della città di Evergon per il rientro serale dalle miniere e dai pozzi d’estrazione disseminati nei Territori. La lentezza dei controlli è estenuante e accanto ai mezzi si accalcano i mendicanti delle bidonville che hanno affrontato i chilometri che separano i loro insediamenti dalla città nella speranza di ricevere i resti dei pasti e dell’acqua dagli operai di ritorno a casa.
Ruan e Log, due ragazzini sugli undici anni, se ne stanno attaccati sotto un overcraft a impulsi elettromagnetici, sospesi a 20 cm dal suolo, ancorandosi con le mani e con i piedi alle scanalature dello scafo del mezzo.
Lo hanno agganciato ormai da una trentina di minuti a uno degli snodi di raccordo che conducono dalle fabbriche alla città.
Starsene lì sotto è un inferno.
I loro vestiti macilenti, dello stesso colore del deserto che si ritrovano attorno, sono zuppi di sudore. Il calore estenuante gli fa diventare le braccia di burro e le mani sembrano voler lasciare a ogni istante i loro appigli.
Eppure la cosa peggiore in una situazione come questa non è tanto ciò che accade ai corpi ma quello che succede nella testa. Lo stordimento in cui sono immersi è al limite della perdita di coscienza per via dell’esposizione agli impulsi elettromagnetici prodotti dallo scafo dell’overcraft.
Così quando il mezzo è fermo, nonostante la fatica, evitano di mollare la presa, perché oltre alle partenze repentine del mezzo il rischio maggiore è quello di deconcentrarsi e di dimenticare che cosa stiano facendo, rimanendo sdraiati a terra. Hanno imparato a starsene lì attaccati e a ripetere costantemente, a bassa voce, l’ordine di rimanerci, come fosse un mantra, o la preghiera di un rosario. È troppo facile perdersi con i pensieri lì sotto, e questo mormorio gli permette di essere concentrati sull’unica azione indispensabile durante il percorso.
Il loro metodo d’infiltrazione è per ora molto efficace. Sono sufficientemente piccoli di corporatura da infilarsi nello stretto spazio tra un mezzo e il terreno, sono sufficientemente determinati per riuscire a resistere al bombardamento cerebrale a cui sono sottoposti, e nessuno ai controlli dei check point si è finora fatto venire in mente di dare un’occhiata a cosa ci sia sotto gli overcraft. Ruan è quello che ha più difficoltà nel tragitto. Su di lui gli effetti degli impulsi hanno un impatto maggiore. Si deconcentra con più facilità e ogni tanto il suo compagno deve ripetere il suo nome fino a quando lui non si volta e gli fa un qualsiasi cenno d’assenso.
Il check point adesso è vicinissimo. I due possono giá vedere gli anfibi neri dei militari. Log controlla il sottile zaino che porta attaccato al petto, stringe i denti, e si schiaccia contro lo scafo dell’overcraft più che può, poi chiama ancora il suo compagno, che sbatte gli occhi come per riprendersi da un colpo di sonno. La fermata al passaggio a livello delle mura sembra interminabile, poi con uno strattone secco il mezzo riparte e a Ruan sfugge un piede dall’appiglio, il tallone incontra l’attrito del terreno, e il piede si incastra per un momento tra lo scafo e un dosso della strada. Il dolore è lancinante e proietta Ruan nel mondo degli esseri senzienti senza che la sua bocca emetta un solo suono. Log lo guarda e spera che non molli la presa. Percorrono forse altri due chilometri poi Log individua le villette a schiera dove sono diretti e fa segno all’altro che è ora di sganciarsi. I due si lasciano scivolare a terra e rotolano verso le siepi che circondano il comprensorio.
La luce crepuscolare è fioca, rianimata lungo la strada dal brillare giallognolo dei lampioni. Il silenzio è quasi completo. È l’ora di cena a Evergon. Le lussuose villette rilucono nelle loro vetrate fotocromatiche. Le strade sono pulite e non c’è traccia di terra o sabbia, come se la città fosse una bolla sospesa nel deserto dei Territori.
Il verde invade tutto e gli scintilli delle foglie lucide e grasse degli alberi e delle piante tempestate di fiori dicono che a Evergon l’acqua non è un problema. Un’oasi di 2 milioni di abitanti incastonata in un nulla desertico popolato solo di rovine.
Ruan si siede a terra e scuote la testa, come se volesse sciacquarsi via la densa nebbia che gli avvolge il cervello. Si tocca la caviglia gonfia e stringe i denti provando a muoverla. Log è ancora sdraiato accanto alla siepe e guarda il cielo stellato cercando di riprendere fiato. Poi qualcosa attira l’attenzione di Ruan. Senza dire una parola si alza e si dirige zoppicando oltre le siepi. Log lo guarda e lo segue. Nella piazza d’accesso del comprensorio di villette zampilla una piccola fontana circolare e i due dimenticano ogni precauzione e si precipitano alla sua vasca per bere, succhiando l’acqua tra i pesciolini colorati che vi nuotano dentro. Si asciugano il viso e lasciata la fontana si mettono a esplorare i vialetti circondati da siepi ed aiuole che dividono i giardini delle abitazioni.
Dopo una prima perlustrazione sembra che abbiano trovato il posto che cercavano e si siedono contro un muretto ad aspettare. Da una bassa finestra si vede una famiglia seduta a tavola. Non sembrano nemmeno degli uomini a guardarli così. Danno più la sensazione di esseri superiori che la vita non può toccare con le sue mani sporche. Log controlla la caviglia di Ruan muovendogli il piede e lui lo spinge via lamentandosi del dolore. Dopo qualche decina di minuti un vocio li mette in allerta. Si sporgono oltre il muro e vedono una ragazza che parla con un uomo sulla porta di una delle villette. È lei che stavano aspettando. L’avevano intravista proprio mentre usciva da casa l’ultima volta che erano stati a Evergon per frugare nei cassonetti dei rifiuti sul retro delle abitazioni.
La ragazza fa un cenno di saluto ed esce mentre la porta si chiude dietro di lei. Ha al guinzaglio un cane di media stazza, con il corpo denso di pelo marrone, e dei ciuffi che gli cadono sugli occhi. Lei gli accarezza il muso ed estrae il cellulare dalla tasca dirigendosi verso la strada che costeggia il comprensorio. Log e Ruan la seguono.
Il quartiere è tranquillo fino all’inverosimile. Le auto sono tutte nei garage adiacenti ai giardini della case, ogni tanto qualche passante, poi un veicolo, o una bicicletta, niente di più. I ragazzini si muovono rimanendo il più possibile immersi nella penombra.
La ragazza sgancia il cane dal guinzaglio e continua a passeggiare digitando nel cellulare. Il cane scorrazza da un lato all’altro della strada fermandosi ad annusare, poi imbocca un vicolo sulla sinistra mentre la sua padrona procede dritta.
In quel momento Log si sfila dal petto lo zaino più velocemente che può, lo apre, e ne estrae due pezzi metallici, li incastra tra loro andando a costruire una rudimentale balestra, carica un dardo, e seguito da Log si dirige in una corsa silenziosa al centro della strada.
La ragazza procede a una ventina di metri davanti a loro con la testa piegata sul cellulare, Log imbraccia la balestra portandosela davanti al viso e svolta nel vicolo sulla sinistra dove si era andato ad infilare il cane. Ruan gli sta dietro. Tutto ciò che si sente è un piccolo guaito. La ragazza si ferma e chiama “Dorian?”. Poi si guarda attorno e chiama ancora “Dorian, dai, piccolino…” dirigendosi verso le siepi che si trovano alla sua destra.
Dall’altro lato del vicolo intanto Log e Ruan trasportano un sacco di juta piuttosto pesante camminando uno dietro all’altro. Si muovono rapidi attraversando con circospezione le strade e gli incroci. Ruan zoppica sempre più visibilmente ma non cede e in una ventina di minuti raggiungono i check point d’uscita. Sono sfiniti. Lì i mezzi dei pendolari che di giorno lavorano a Evergon non vengono fermati nel loro ritorno ai Territori. Procedono attraverso i varchi, sfilando accanto ai soldati che nemmeno li guardano. Log indica a Ruan un autocargo, dove alcuni operai se ne stanno seduti nel vano di carico. I due corrono tenendo il loro fagotto in braccio fino a raggiungerli, si aggrappano alla scaletta laterale dell’autocargo, e tirano il fiato. Gli operai li guardano senza parlare, sanno che si tratta di due infiltrati che stanno cercando il modo d’uscire e li lasciano fare. Il pesante mezzo attraversa il check point senza fermarsi e prosegue lungo la strada polverosa che conduce verso gli insediamenti delle colline.
Qualche ora più tardi Ruan è seduto a terra e si fascia la caviglia con un lungo straccio di juta, mentre Log lascia cuocere lentamente la carne sul fuoco che hanno acceso.
Lontano, nel buio, risplendono le luci di Evergon come si trattasse di stelle lontane.
di Luigi Saravo