Ex machina

Gamera emerge da zolle di terra scure che vengono vomitate dall’asfalto aperto come una ferita nel cuore della città. Immenso nella sua corazza uncinata, inarca la coda contro Coporno che lo aspetta dritto sulle zampe posteriori in un urlo a fauci spalancate, e l’urlo risuona in un eco spettrale tra le macerie attorno affondate nel blu notturno del cielo.

Ora non c’è traccia di esseri umani. I palazzi che ancora sono in piedi come antichi monoliti erosi dalla furia dei due mostri disegnano il cerchio dentro al quale prendono forma i primi colpi dei due contendenti, un cerchio dove si raccolgono le paure di un’umanità soggiogata dalla furia delle due antiche creature.

Gamera e Coporno, credo siano i nomi di due mostri di un film calpesta e distruggi che, suppongo negli anni 60, venne prodotto, come altri di questo genere, in Giappone, sulla scia di Godzilla, o magari lo precedette, non so. L’istinto mi porta immediato come una fucilata ad andare a cercare conferma dei loro nomi, conferma della data d’uscita del film, conferma della loro precedenza o conseguenza rispetto a Godzilla, e dato che sto scrivendo su un pc, Google è a uno sputo, e troverei tutto quello di cui ho bisogno sul suo motore di ricerca. Ma oggi mi devo fermare. Questo processo di verifica dei dati in rete, che è molto simile a quando mi prude qualcosa e la mia mano si mette in movimento per grattare senza che io possa interporre un solo pensiero tra lo stimolo e la risposta, oggi viene interrotto dalla stessa necessità che mi spinge a scrivere.
Mi devo fermare perché il tema che intendo trattare gira proprio intorno a questa dinamica coattiva e per lo più benefica. Quindi ci becchiamo i nomi confidando nella mia memoria, ci becchiamo la datazione e la posizione rispetto a Godzilla così come sono e tiriamo avanti.

Gamera e Coporno emergono dal terreno e allo stesso tempo quel luogo dissestato e opaco che è il magma delle mie memorie infantili. Emergono e tritano sotto le zampe tutto quello che incontrano, in Giappone ovviamente. Forze oscure e devastanti che aprono cicatrici come crateri nell’isola nipponica. È anche possibile che più che dalla terra emergano dal mare. Queste immagini somigliano nella mia testa a quelle di un sogno e hanno, in effetti, molto a che fare col sogno, con quello che il sogno muove, con il linguaggio dell’inconscio. Lo sappiamo, le storie di mostri Giapponesi hanno a che fare con l’inconscio collettivo di una terra che ha subito al termine della seconda guerra mondiale uno shock senza precedenti. Una terra che ha vissuto l’incubo di un attacco nucleare.

Il cinema come parente stretto del sogno è un tema ormai conclamato, con la metafora della sala buia, delle immagini che scorrono davanti ai nostri occhi e tutto il corredo di considerazioni a seguire, ma, al di là di questo, la questione che rimane sempre aperta e su cui vale la pena interrogarsi è chi sia il sognatore. Siamo noi spettatori? È il regista? Beh, è possibile che la risposta contempli entrambe le ipotesi, è possibile che il sognatore sia una cultura. Che gli artisti raccolgano le pulsioni, le paure, i desideri del loro tempo, anche questo è fatto conclamato. Il cinema quindi, se ha a che fare con il sogno e con l’inconscio, e a sognare è un uomo che raccoglie temi che vanno al di là del personale per abbracciare l’intera cultura in cui è immerso, ci racconta ciò che tutti gli appartenenti a quella cultura vivono a un livello profondo e potente. Osservando quei sogni, i sogni che il cinema ci propone, possiamo trovarci di fronte a una plausibile visione di cosa realmente stiamo vivendo.

Gettando lo sguardo sul cinema dei nostri anni, degli ultimo venti o poco più, potremo rilevare senza troppa fatica che molto cinema sia cinema di fantascienza e che nel genere pullulino i racconti che hanno come nucleo tematico la Macchina, il rapporto tra l’uomo e la Macchina. Possiamo passare per Tetsuo, Akira e tanto cinema giapponese, possiamo prendere Jonny Mnemonic o Matrix, possiamo correre attraverso una rete piuttosto fitta di film che si parlano gli uni con gli altri, tutti legati tra loro dal rapporto essere umano-macchina, e questo rapporto è un rapporto particolare, non solo di relazione, ma di connessione. Jack da 20 millimetri con uscita sulla nuca, hardware impiantati direttamente nella scatola cranica, microchip intradermici, e un corredo di fusioni organico-inorganico, fino a macchine che funzionano attraverso sistemi biologici.

La fantascienza, viene considerata, e non a torto molto spesso, come una previsione di futuro. Da sempre. Verne ne è un esempio con cui continuiamo a giocare e a stupirci, ma ve ne sono altri, molti, innumerevoli. La fantascienza che ci racconta il mondo a venire, e nel caso che stiamo prendendo in esame, che ci racconta di quando un giorno, magari non lontano, noi saremo connessi simbioticamente alle macchine. Beh, temo che è qui che la cosa non funzioni, almeno se diamo per buono il punto di partenza della relazione tra cinema e inconscio, perché una delle proprietà dell’inconscio non è quella di predire il futuro, ma di mostrarci attraverso un’immagine simbolica, metaforica a volte, non tanto quello che accadrà, ma quello che accade, di svelarcelo. Il cinema, quel cinema, ci sta raccontando che noi siamo già connessi alla Macchina. Ognuno di noi. Ogni appartenente a quella cultura che quei film ha prodotto, al di là della sua prossimità con un dispositivo hardware.

Ma “connessione” diventa, stando a quel che la verità del nostro inconscio culturale ci offre, un termine che risulta inadeguato, troppo legato alla sensazione di fare un’azione attraverso un dispositivo che ci apra l’accesso alla rete, e che presuppone che si possa percorrere l’azione al contrario, disconnettendosi. No, “connessione”, date le circostanze così come le stiamo immaginando, non funziona. Forse osmosi, o vattelappesca, ma “connessione” per le implicazioni di senso comune che il termine richiama a ognuno di noi è un termine blando, fuorviante. Per la durata di quest’articolo utilizzeremo un’altra parola: “endosimbiosi”, condizione in cui il simbionte vive nello spazio intracellulare dell’ospite, anche se nell’accezione che utilizzeremo il simbionte è interscambiabile con l’ospite. L’essere umano vive nello spazio intracellulare della macchina dove le cellule sono le componenti minimali della consistenza della Macchina e la Macchina vive nello spazio intracellulare dell’essere umano, permeandolo attraverso le sue funzioni e modificandone percezione, pensiero e di conseguenza unità organica.

Eccoci, dunque, in endosimbiosi con la Macchina e la macchina è Internet, corredato dell’architettura di server di cui si alimenta, dell’innumerevole quantità di dispositivi, applicazioni, siti, algoritmi che lo compone, innervato in ogni processo tecnologico, industriale, ludico, comunicativo, esplorativo, conoscitivo, con tutte le sue estensioni sociologiche, storiche, commerciali, economiche, scientifiche.

Certo, esistono individui che rifiutano la “Tecnologia”, che scelgono di vivere senza la lavastoviglie, l’auto, e poi senza il pc, lo smartphone, il tablet. Ma queste persone non sono al di fuori della Macchina, sarebbe una pia illusione. È, come fu, per la televisione. C’erano, allora, persone che si vantavano di non guardarla, di non averla, e che per questo vivevano nella convinzione di abitare uno spazio, una realtà, diversa da chi la televisione l’aveva e la fruiva. Non era così. Un’altra antica illusione. La televisione era l’ambiente in cui ognuno viveva. Quando la maggior parte degli individui che fanno parte di un contesto frequentano massivamente un linguaggio quel linguaggio creerà l’ambiente, la realtà, in cui l’intero contesto abita. È come pensare che non sei un fumatore solo perché non aspiri una sigaretta mentre te ne stai chiuso in una stanza di 50 metri quadri con altre 5 persone di cui 4 sono fumatori. Tu respiri la stessa aria, e le sostanze in sospensione in quell’aria permeano il tuo organismo e innescano processi, che tu lo voglia o no, e, a livello culturale, la metafora è comunque ancora un po’ debole perché il pensiero, le sue categorie, i suoi riferimenti e i suoi processi sono assai più pervasivi del fumo passivo. E così eccoci, dunque, in endosimbiosi con la Macchina, noi, tutti, e tutti con lei, in un’unità inscindibile che produce una nuova concezione dell’essere umano e dei suoi strumenti. La Macchina si fa attraverso di noi e noi attraverso di lei, e il tutto genera nuove categorie e nuovi valori, primo fra tutti quello di un’intelligenza collettiva, generata da una memoria condivisa. E qui torniamo a Gamera e Coporno. Ora apro il motore di ricerca e cerco. Le immagini a cui accedo, le informazioni, sono molteplici e senz’altro modificano l’esperienza soggettiva che giace nella mia memoria in relazione ai due mostri. La mia memoria aveva reinterpretato, associato, ricostruito l’esperienza di quel film di mostri, generando immagini, nozioni, suggestioni affatto diverse da quelle che ora si formano accedendo ai dati in rete. La mia memoria ora, qui, all’interno del motore di ricerca, integra il patrimonio di dati condiviso in rete alle reminiscenze personali, le modifica allineando la mia esperienza soggettiva a quei dati e così io accedo a una nuova memoria delle cosa in sé. Se l’intelligenza è la capacità di mettere in relazione elementi distanti, mi sembra evidente che la funzione mnemonica sia centrale nel processo, e se la memoria è una memoria che posso definire condivisa, allora anche le forme dell’intelligenza lo saranno.

L’esempio più immediato è il mondo scientifico dove non esiste più il tizio che placidamente sdraiato sotto un albero nella ridente campagna inglese sente cadere una mela sulla propria testa e viene illuminato dal bagliore di una scoperta. Ora le miriadi di dati provenienti dagli scienziati di tutto il mondo si rendono disponibili, vengono condivisi, generando altri dati, in una catena, in un processo, che porta la consegna dei Nobel sempre più a gruppi che a singoli, gruppi che a loro volta sono solo la punta dell’iceberg di un processo unitario prodotto da una moltitudine di ricercatori che elaborano e producono dati, dislocati in ogni angolo del pianeta.

Possiamo, poi, pensare alla circolazione delle idee per accorgerci di essere parte di un unico flusso cognitivo globale. Chiunque si occupi di produrre idee, riguardo a soluzioni scientifiche, commerciali, narrative, tecnologiche, sa che deve mettere in conto che nello stesso momento, sul pianeta, altri come lui avranno avuto le medesime idee, e che presto, se non saranno loro stessi a realizzarle, lo faranno altri. Questo è frutto di una condivisione di dati, strumenti, processi. Anche questo è frutto dell’intelligenza condivisa nata dall’endosimbiosi con la macchina.

Ci sono poi algoritmi in grado di prevedere gli assembramenti di persone identificando anche dove avverranno. Accade in Cina, con il motore di ricerca Baidu, l’equivalente cinese di Google. L’algoritmo di Baidu legge l’immensa quantità di dai che gli utenti producono in rete e li organizza fornendo le sue previsioni. Questo ci indica dove sia il limite tra la mente di coloro che fruiscono del motore di ricerca e il motore di ricerca stesso, un limite sempre più opaco, ormai forse indistinguibile, all’interno di un’unità che mescola neuroni e microchip, sinapsi e link, dita e schermi, occhi e led.

Gamera è un mostro giapponese che dal 1965 è protagonista di numerosi film. Nasce sulla scia di Godzilla che vede la luce nel 1954. Ora so che non ha mai incontrato un altro mostro che si chiamava Coporno. Le immagini della mia memoria, le informazioni che credevo di avere, si fondono ai dati che sto immagazzinando, mutano, si chiarificano, guadagnano in concretezza, perdendo l’aura onirica che le accompagnava, la luce tenue del sogno. Eppure i due mostri della mia infanzia sono ancora lì, in qualche remota regione del mio cervello, continuando ad affrontarsi, distruggendo tutto quello che incontrano attorno a loro, lasciando un cerchio di rovine dentro cui brilla incandescente una nuova forma endosimbiotica capace di pensiero e corroborata dalla linfa luminescente dell’elettricità.

Luigi Saravo