La corsa
“Muoviti veloce e stravolgi le cose. Fino a che non riuscirai a fare questo, significa che non ti stai muovendo abbastanza velocemente.” Mark Zuckerberg
Questo è un obitorio. Viviamo in un gigantesco obitorio con tanto di uffici, palestre, scuole, e centri commerciali, dove ci ostiniamo a far finta di essere vivi. L’ambiente ad aria microfiltrata è illuminato dalla luce bianca proveniente dai controsoffiti bianchi, che illumina questi tavolini bianchi, con sedie bianche, su un bianco pavimento a sottili strisce bianche. Guardo al di là degli spessi vetri che proteggono acusticamente la sala del bar ristorante bianco, al secondo piano di questo palazzo bianco, e sospiro. Una donna parla in un telefono due tavoli oltre il mio.
Parla… in realtà non parla, vomita. Vomita parole in quel cazzo di maledetto telefono. Le infila come fossero proiettili da una cartucciera e le spara nel microfono del telefono, senza nessun riguardo o rispetto e pietà, né per chi è dall’altra parte della sua telefonata, né per me. Vorrei solo che smettesse. Smettila, cazzo, falla finita… Non ho la forza di alzarmi e spostarmi. Il mal di testa mi batte nelle tempie e il corpo è come svuotato. Morirò qui, sotto la raffica delle parole della donna sparaparole e del suo cazzo di telefono.
Sono chiuso in questo bar da due ore. Aspetto. Sono un uomo paziente e aspetto. No, non sono paziente, sono disperato. Sono solo un povero tossico disperato in attesa di chi può portargli quello che deve portargli. Ho finito tutto quello che avevo a disposizione, me ne sono accorto tardi, come un povero stupido, troppo impegnato a raccogliere i frutti dorati dell’abbondanza.
“Ma che ci faccio io qui? Perché sono qui? Perché non me ne sto a fare quello che devo fare? Devo smetterla. La verità è che devo smettere.”
Devo farla finita con questa merda. Lo so, me lo ripeto ogni volta, ma ogni volta che mi ritrovo a farlo cado in questa specie pozzo senza fondo che puzza di merda, la mia merda, e da dove mi sembra non si possa più uscire.
Due uomini al bancone sorseggiano caffè. Sembrano insetti isterici che agitino le loro zampe contro il niente davanti a loro. È questo che fa l’astinenza. Tutto comincia ad andare velocissimo e ti lascia al palo. Un cameriere avanza verso di me incombendo come un’onda sotto la quale soffocherò. Sono lento. I miei riflessi sono lenti. Non devo muovermi. Tutto corre troppo velocemente. Respiro ancora. Sento il battito del mio cuore colpirmi il petto a intervalli che sembrano smisurati e in mezzo ogni volta un’iniezione d’angoscia. Respiro. Respiro ancora. Cerco di pensare. Devo tenermi occupato. Devo sedare la paura che mi fa ogni cosa che si muove accanto a me.
È un mondo che corre, un mondo da cui sono escluso, che mi lascia irrimediabilmente indietro, ingoiato dal suo reflusso, nel fetore dei suoi resti che marciscono ad ogni passo. Arranco. È la storia della mia vita, lo so, lo vedo. È la storia della mia vita che si mostra chiara, evidente, spietata, nella crisi d’astinenza dentro cui mi trovo. È così, è questa la verità. Io sono sempre vissuto rincorrendo cose che non capisco, che mi sfuggono, a cui non potrò mai avere accesso. È questo, è solo questo che la mia vita racconta… Basta. Fermo, fermati… Mi devo fermare… Non mi devo lasciar andare. Pensare adesso non mi aiuterà. Respiro. Respiro ancora. Mi calmo. Sono calmo. Devo restare calmo. Aspetto. Guardo fuori dal vetro. Mi godo il panorama. Le auto corrono come schegge di metallo colorato, lasciano scie di colore e fumo, accelerano, frenano, girano, si accalcano, svicolano, scompaiono… Ho la nausea. Ho questa maledetta nausea da montagne russe. Come se mi trovassi su una giostra senza riuscire a scendere. Può essere divertente i primi tre minuti. Ci provo a farlo essere divertente. Poi diventa un incubo. Solo un maledetto, claustrofobico, incubo senza soluzione, senza tempo… Respiro… Ancora… Ci provo. Mi calmo, adesso mi calmo. Tremo. Ecco che tremo. Comincio a tremare. Tiro su l’ennesima, inutile, tazzina di caffè da questo tavolino, e tremo. Va bene, va bene, finirà. Tra poco finirà. Tra poco tutto finirà. E poi mi disintossicherò, lo farò, lo faccio, questa volta lo faccio, lo giuro.
Ma perché non è qui? Quanto gli ci vuole a quel maledetto bastardo per arrivare qui? Lo pago. Lo pago, maledetto me, lo pago, quanto ci mette ad arrivare? Ti chiamo. Ti chiamo con la forza della mia mente maledetto tossico spacciapasticche del cazzo. Ti chiamo con la forza del mio pensiero. Compari… Compari da dietro l’angolo, compari, compari! E portami quello che mi devi portare, e prendi i tuoi soldi del cazzo, e sparisci. Respiro… Respiro ancora… Mi calmo.
“Questa non è la storia della mia vita. Questa è solo una parentesi di debolezza. Io non sono così. È un momento difficile, lo è per tutti. Ne uscirò, lo so che ne uscirò. Io sono una persona per bene. Questo è solo un brutto momento. Passerà.”
Lo farò passare. Ho solo bisogno di riprendermi un po’. È che tutto corre. Tutto corre velocissimo e mi sento come un bradipo in un branco di lepri. Lepri mannare. Sono lepri dai denti a sciabola come le tigri preistoriche. Sono affamate di carne. Leprottini cannibali. Ma non sono io. Non è colpa mia. Qui nessuno ce la fa. Nessuno può farcela. Il mondo va troppo veloce per i nostri cervelli. Questo mondo che abbiamo creato per noi è un mondo per lepri cannibali. Nessuno uscirà vivo di qui, nessuno.
L’astinenza mi regala la lucidità. Adesso lo vedo. Adesso lo so. Moriremo tutti schiacciati dalla velocità. Siamo già morti. Siamo tutti morti. Viviamo nel nostro obitorio bianco a strisce bianche. È già tutto finito. Il mio dolore è universale. Ecco, ecco che mi riprendo, ecco che capisco. Il dolore è universale e nessuno sopravviverà. Saremo succhiati e svuotati da tutto quello che abbiamo saputo creare. Dalla velocità. La velocità ci consumerà. Lo so, lo vedo. E io voglio uscire. Posso farlo. Posso dire no. Posso dire no alla morte. Voglio vivere. Io voglio vivere.
Eccolo.
“È lui. Il maledetto bastardo è arrivato.”
Dammi quello che mi devi dare e vattene, brutto tossico del cazzo. Io non sono come te. Io ce la farò. Io sopravviverò e verrò a posare fiori marci sulla tua tomba puzzolente. Dammi quelle maledette pasticche e vattene. Prenditi i tuoi soldi del cazzo e vattene. Io non mi mischio a gente come te. Sparisci. Non me ne frega un cazzo, sparisci. Ecco, bravo, così, dileguati, disintegrati, smaterializzati. Scompari. Sei scomparso. Ti ho fatto scomparire con la forza del mio pensiero. Ti ho fatto comparire e scomparire con la forza del mio forte pensiero, del mio forte, potente, pensiero.
Succhio la pasticca e mi rilasso. Succhio sotto la lingua e mi rilasso. Forse me la dovrei infilare nel culo, farebbe effetto prima, ma non posso infilarmi un dito in culo qui davanti a tutti. E poi non mi viene bene adesso andare fino in bagno per infilarmi la pasticca nel culo. Tanto arriva. Già la sento arrivare.
Conto. Conto il primo minuto. Il secondo, il terzo. Conto. Conto e non penso. Contare mi aiuta a non pensare. Secondi. Secondo dopo secondo. Ecco. Dietro il vetro l’albero rallenta il suo movimento sotto le folate di vento. Vedo le sue foglie vibrare. Vedo i riflessi su quelle foglie cambiare. Adesso il mio pensiero, lo vedo, è già calmo. Forse è solo suggestione, una specie di effetto placebo, è troppo poco tempo… No… sto bene. Ora è il mondo che va a rallentatore. Ora siete voi stupide formiche a fare stupidi passi da formica. Io posso vedere le vostre pupille restringersi dopo ogni battito di ciglia. Siete lenti. Siete dinosauri lentissimi che vivono un tempo lentissimo, nelle loro lentissime vite. Siete i rifiuti di questa società che vi lascia irrimediabilmente indietro. Vedo i vostri occhi smarriti mentre correte per non essere dimenticati dal tempo. E io conduco la corsa. È così. Sono in testa, mi sentite? Arriverò prima di chiunque altro in qualunque luogo di qualunque tempo. Perché io sono il tempo. E corro veloce. Corro come una maledettissima, schifosissima, lepre, mi sentite? Mi vedete?
Voi siete già morti.
Luigi Saravo